Dicembre a Firenze
Uscendo, quello non si volto' a guardare
Anna Achmatova
I
Le porte aspirano aria, espirano vapore; ma
non tornerai qui, dove divisa in coppie
la popolazione passeggia sull'Arno sgonfio
simile a una nuova specie di quadrupedi. Le porte
sbattono, escono bestie sull'asfalto.
C'e' davvero qualcosa della foresta nell'atmosfera
di questa citta'. E' una citta' bella, dove
a una certa eta' semplicemente distogli lo sguardo
dalla gente e cali la visiera.
II
Sbattendo le palpebre, affondando nell'umido crepuscolo,
l'occhio ingoia i lampioni come pillole per la memoria; e
il tuo portone a due minuti dalla Signoria allude
sordamente, secoli dopo, alla ragione dell'esilio: accanto
al vulcano non si puo' vivere senza mostrare il pugno,
ma non puoi neanche aprirlo, quel pugno, morendo,
perche' la morte e' sempre una seconda Firenze
con l'architettura del Paradiso.
III
A mezzogiorno i gatti sbirciano sotto le panchine per
controllare
se sono nere le ombre. Su Ponte Vecchio - lo hanno restaurato -
dove contro uno sfondo di colline azzurre s'imbusta Cellini,
c'e' baldanzoso commercio di chincaglieria d'ogni sorta;
le onde ripassano ramo, gorgogliando, dopo ramo.
E le ciocche dorate di una bella donna che si china cercando
qualcosa di raro, che fruga in mezzo alle scatole
sotto gli sguardi non sazi di giovani venditrici,
sembrano traccia dell'angelo nel regno dei corvini.
IV
L'uomo si trasforma in fruscio di penna sulla carta,
anelli,
occhielli, cunei di lettere e, poiche' il foglio e' scivoloso,
in virgole e punti. Pensare solo quante volte
scoprendo una "v" in una parola mediocre
la penna e' inciampata e ha disegnato rondinelle!
Ossia: l'inchiostro e' piu' onesto del sangue,
e un volto al buio con le parole fuori - Dio sa
quanto piu' in fretta si asciugano gli umori! -
ride come carta spiegazzata.
V
I lungarni ricordano un treno impietrito di stupore.
Le case si levano dalla terra visibili solo fino alla cintola.
Tuffandosi nell'umida bocca di un portone, il corpo
nel soprabito sale a piccoli passi lungo piatti,
decrepiti e sbrecciati denti verso l'infiammata volta
del palato, con il suo scabro e sempre uguale "16".
Spaventoso per afonia, il campanello partorisce infine
un cigolante: "Prego, toglietevi il cappotto";
nell'ingresso vi accerchiano due vecchi "8".
VI
Dentro il caffe' polveroso, nella penombra del berretto
l'occhio si abitua alle ninfe del soffitto, ad amorini, stucchi;
nella gabbia, avvertendo penuria di terzine,
un vecchio cardellino esegue i suoi gorgheggi.
Il raggio di sole che si spacca sul palazzo,
sulla cupola della chiesa dove Lorenzo giace,
s'infila attraverso le tende e scalda le vene
del marmo sporco, il fiore di verbena, e canta
il cardellino nella sua Ravenna di ferro battuto.
VII
Espirando vapori, aspirando aria, le porte
sbattono a Firenze. Che tu viva una o due vite
(dipende dalla fede), nella prima di sera
ti rendi conto: non e' vero che l'amore
muove le stelle (la Luna a maggior ragione)
giacche' divide per due ogni cosa: anche il denaro
in sogno. Nel tempo libero perfino i pensieri
sulla morte. Se le stelle del Sud fossero da amore
mosse, sarebbe per scostarsi - l'una via dall'altra.
VIII
Il nido di pietra e' annunciato dallo stridio sonoro
dei freni; attraversi la strada con il rischio
d'essere stra(m/p)azzato a morte. Nel basso cielo di dicembre
il gigantesco uovo del Brunelleschi
spreme una lacrima nella pupilla incallita
al bagliore delle cupole. Il vigile all'incrocio
tiene le braccia a "v", altoparlanti
strepitano dei prezzi rincarati. La parola "vita"
si fa vuota - ineluttabilita' dei dittonghi!
IX
Esistono citta' a cui non c'e' ritorno. Il sole batte
alle loro finestre come su specchi levigati. Cioe'
non puoi penetrarci nemmeno a prezzo d'oro, la'
il fiume scorre sempre sotto i sei ponti.
La' esistono luoghi dove hai baciato labbra
con le labbra, e con la penna i fogli. La teoria di archi,
colonne, spaventapasseri di ghisa, abbarbaglia gli occhi;
la folla che assedia l'angolo dei tram la' parla
nella lingua di chi e' partito.
1976
Josif Brodskij,
Poesie italiane. Milano, Adelphi, 1996. Traduzione di Serena Vitale.
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