Marina Ivanovna Cvetaeva (1892-1941)

Ai miei versi scritti così presto

Ai miei versi scritti così presto,

che nemmeno sapevo d’esser poeta,

scaturiti come zampilli di fontana,

come scintille di razzi.

 

Irrompenti come piccoli demoni

nel sacrario dove stanno sogno e incenso,

ai miei versi di giovinezza e di morte,

versi che nessuno ha mai letto!

 

Sparsi fra la polvere dei magazzini,

dove nessuno mai li prese né li prenderà,

per i miei versi, come per i pregiati vini,

verrà pure il loro turno.

 

(trad. di P.A. Zveteremich)

da: Versi per Blok

 

Il tuo nome è una rondine nella mano,

il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua.

Un solo unico movimento delle labbra.

Il tuo nome sono cinque lettere.

Una pallina afferrata al volo,

un sonaglio d’argento nella bocca.

 

Un sasso gettato in un quieto stagno

singhiozza come il tuo nome suona.

Nel leggero suono degli zoccoli notturni

il tuo nome rumoroso rimbomba.

E ce lo nomina lo scatto sonoro

del grilletto contro la tempia.

 

Il tuo nome – ah, non si può! –

Il tuo nome è un bacio sugli occhi,

sul tenero freddo delle palpebre immobili.

Il tuo nome è un bacio dato alla neve.

Un sorso di fonte, gelato, turchino.

Con il tuo nome il sonno è profondo.

( trad. di P.A.Zveteremich)

Io ti racconterò – del grande inganno

 

Io ti racconterò – del grande inganno:

io ti racconterò come cala la nebbia

sui giovani alberi, sulle vecchie ceppaie:

io ti racconterò come si spengono le luci

nelle basse case, come – straniero di egizie contrade

  1. soffia lo zingaro nel sottile zufolo sotto un albero.

 

Io ti racconterò – della grande menzogna:

io ti racconterò come si stringe il coltello

nella stretta mano, come si arruffano al vento dei secoli

i riccioli – ai giovani, e le barbe ai vecchi.

 

Mormorio di secoli.

Scalpitio di zoccoli.

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

 

Dopo una notte insonne si fa debole il corpo

 

Dopo una notte insonne si fa debole il corpo,

gentile diventa e non suo, - di nessuno.

Nelle vene lente di nuovo gemono frecce –

e sorrisi alla gente, come un serafino.

 

Dopo una notte insonne si fan deboli le braccia

e profondamente indifferente e il nemico e l’amico.

L’arcobaleno intero – in ogni suono casuale,

e nel ghiaccio profumo di Firenze ad un tratto.

 

Dolcemente lucenti si fanno le labbra, e l’ombra più dorata

intorno agli occhi incavati. E’ la notte che ha acceso

questo lucentissimo viso, - e per la notte scura

in noi scuri si fanno soltanto – gli occhi.

 

(trad. di G. Ansaldo)

 

Io sono una pagina per la tua penna

 

Io sono una pagina per la tua penna.

Tutto ricevo. Sono una pagina bianca.

Io sono la custode del tuo bene:

lo crescerò e lo ridarò centuplicato.

 

Io sono la campagna, la terra nera.

Tu per me sei il raggio e l’umida spiaggia.

Tu sei il mio Dio e Signore, e io

Sono terra nera e carta bianca.

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

 

Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare 

Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare –

come il sole, come il pendolo, come il calendario.

D’essere un’anacoreta laica di snella figura,

savissima – come qualsiasi creatura di Dio.

 

Di sapere: lo Spirito è mio alleato, lo Spirito è mia guida!

D’entrare senza annunciarmi, come un raggio e come uno sguardo.

Di vivere così come scrivo: in modo esemplare e succinto –

come Dio comanda e come gli amici non prescrivono.

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Un giorno, meravigliosa creatura 

Un giorno, meravigliosa creatura,

io per te diventerò un ricordo,

 

là, nella tua memoria occhi-turchina

sperduto – così lontano lontano.

 

Tu dimenticherai il mio profilo col naso a gobba,

e la fronte nell’apoteosi della sigaretta,

 

e il mio eterno riso, che tutti intriga,

e il centinaio – sulla mia mano operaia –

di anelli d’argento – la soffitta-cabina,

la divina sedizione delle mie carte…

 

e come, in un anno tremendo, innalzate dalla sventura,

tu piccola eri ed io – giovane.

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Il poeta

 

Il poeta – da lontano conduce il discorso.

Il poeta – lontano conduce il discorso.

 

Per pianeti, per segni…per borri

di indirette parabole…Fra il sì e il no

lui – persino volando giù dal campanile –

rimedia un appiglio…Poiché il cammino delle comete

 

è il cammino dei poeti. I dispersi anelli

della casualità, ecco il suo legame! Con la fronte in alto

disperatevi! Le eclissi dei poeti

non sono previste dal calendario.

 

Lui è quello che imbroglia le carte,

che inganna sul peso e sul conto;

lui è quello che domanda dal banco

chi demolisce Kant,

 

chi c’è nella bara di pietra della Pastiglia –

com’è l’albero nella sua bellezza…

quello le cui tracce si dileguano sempre,

quel treno a cui tutti

arrivano tardi…

                        Poiché il cammino delle comete

è il cammino dei poeti: bruciando e non scaldando,

strappando e non coltivando – esplosione e scasso –

il tuo sentiero crinieruto, storto,

non è previsto dal calendario!

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti

 

Ci sono al mondo i superflui, gli aggiunti

non registrati nell’ambito visuale.

(Che non figurano nei vostri manuali,

per cui una fossa da scarico è la casa.)

 

Ci sono al mondo i vuoti, i presi a spintoni,

quelli che restano muti: letame,

chiodo per il vostro orlo di seta!

Ne ha ribrezzo il fango sotto le ruote!

 

Ci sono al mondo gli apparenti – invisibili,

(il segno: macula da lebbrosario!)

ci sono al mondo i Giobbe, che Giobbe

invidierebbero se non fosse che:

 

noi siamo i poeti – e rimiamo con i paria,

ma, straripando dalle rive,

noi contestiamo Dio alle Dee

e la vergine agli Dei!

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Il treno della vita 

Se non baionetta – allora zanna, mucchio di neve, raffica di vento –

verso l’immortalità ogni ora c’è un treno!

Arrivo e so una cosa soltanto: stazione,

non vale la pena di disfare i bagagli.

 

Verso tutti, verso tutto – con l’indifferenza degli occhi

per i quali la fine è l’immemorabilità.

Oh, come è naturale salire in terza classe

via dall’asfissia delle stanze delle signore!

 

Via dalle costolette riscaldate, dalle guance

raffreddate…non si può ancora più in là,

anima? Magari nello scolatoio di un lampione –

via da questa fatale falsità:

 

            dei bigodini, dei pannolini,

            dei ferri roventi per i ricci,

            dei capelli bruciacchiati,

            delle cuffie, delle incerate,

            delle ac-que-di-co-lo-nia,

delle familiari felicità

da cucito (Kleimwenig!…),

“E’ stata presa la caffettiera?...“

di roba ad asciugare, cuscini, matrone, bambinaie,

asfissia delle bonnes, dei bagni.

 

Non voglio in questo scatolone di corpi femminili

aspettare l’ora della morte!

Voglio che il treno beva e canti:

la morte è pure lei al di fuori della classe!

 

Via allo sbaraglio, verso lo stordimento, la fisarmonica, la fatica, l’inutilità!

“Come s’appiccicano questi anticristi?”

così che qualche randagio: “All’altro mondo…”

senza aspettare, dico: “Meglio!”

 

Piattaforma. – e traversine. – e l’ultimo arbusto

in mano. – lo lascio – e’ tardi

Per tenersi su. – traversine. – di quante labbra

sono stanca. – guardo le stelle.

 

Così, attraverso l’arcobaleno di tutti i pianeti

scomparsi – qualcuno li ha contati? –

guardo e vedo una cosa sola: la fine.

Non vale la pena di pentirsi.

(trad. di P. A. Zveteremich)

Tentativo di gelosia 

Come state con quell’altra –

Più semplice, vero? – un colpo di remo!

Lungo la linea della costa

se n’è andato presto il ricordo

 

di me, isola flottante?

(nel cielo – non sulle acque!)

Anime, anime! Sorelle dovete essere,

non amanti – voi!

 

Come state con una donna

semplice? Senza divinità?

Deposta dal trono la sovrana

(e da esso disceso),

 

come state – vi date da fare –

vi raggrinzite? Vi alzate – come?

Con il dazio dell’immortale mediocrità

come ve la cavate, poveretto?

 

“Spasimi e intermittenze,

basta! Mi prenderò una casa.”

Come state con una qualsiasi –

voi, eletto mio?

 

V’è più connaturato e commestibile

il cibo? – non nascondere il successo!

Come state con un simulacro –

voi che avete calpestato il Sinai?

 

Come state con un’estranea,

una “terrestre”? Per la costola – v’è cara?

La vergogna con le briglia di Zeus

bon vi frusta la fronte?

 

Come state – come vi sentite –

Cosa potete? Cantare – come?

Con la piaga dell’immortale coscienza

come ve la cavate, poveretto?

 

Come state con un articolo

da mercato? La servitù è dura?

Dopo i marmi di Carrara

come state con la polvere

 

di gesso? (Dio scolpito

in una gleba – e frantumato!

Come state con una centomillesima –

voi, che avete conosciuto Lilith?!

 

Dell’ultima novità di mercato

siete sazio? Stanco delle maghe,

come state con una donna

terrestre, senza i sesti

sensi?

            Via, per la testa: siete felice?

No? Nella frana senza profondità –

come state, mio caro? E’ più pesante?

E’ forse così – come per me con un altro?

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Il tavolo

 

 

Fedele mio tavolo di scrittura!

Grazie per essere andato

con me per tutte le strade.

Per avermi difeso – come una cicatrice.

 

Mio mulo da soma e da scrittura!

Grazie per non aver piegato le zampe

sotto il carico, il fardello delle lacrime –

grazie per aver portato e portato.

 

Severissimo specchio di giustizia!

Grazie per questo, che ti sei messo

(alle tentazioni del mondo argine)

di traverso a tutte le gioie,

 

a tutte le bassezze – diniego!

Contrappeso di quercia

al leone dell’odio, all’elefante

dell’offesa – a tutto, a tutto.

 

Mio legno da vivo-mortale!

Grazie per questo, che sei venuto crescendo

con me, a misura dei lavori

da tavolino – ti sei ingrandito, dilatato,

 

a tal punto esteso – per larghezze

tali, che, spalancata la bocca,

afferratami al bordo del tavolo…

mi allagavo come una spiaggia!

 

Inchiodatami a te con la prima luce –

grazie per questo, che dietro di me

ti scatenavi! Su tutti i percorsi

mi raggiungevi, come uno scià –

 

La fuggitiva.

-“Indietro, alla sedia!”

Grazie per questo, che tutelavi

e costringevi. Ai non eterni beni

mi strappavi, come un mago –

la sonnambula.

                        Tavolo mio che le cicatrici

delle battaglie hai allineato in colonne

brucianti: purpureo delle vene!

Delle mie imprese colonna!

 

Colonna dello Stilita, otturatore delle labbra –

tu per me eri – trono, spazio –

colui per me sei stato che per il mare di folle

ebraiche fu l’ardente pilastro!

 

Sia dunque tu benedetto –

dalla fronte, dal gomito, dalla curva dei ginocchi

sperimentato – orlo del tavolo

come una sega penetrato nel petto!

 

(trad. di P. A. Zveteremich)

Nostalgia della patria! Da tempo

 

Nostalgia della patria! Da tempo

smascherata molestia!

Per me assolutamente fa lo stesso

dove – assolutamente sola

 

trovarmi, per quali sassi a casa

trascinarmi con la borsa della spesa,

in una casa che nemmeno sa ch’è – mia,

come un ospedale o una caserma.

 

Per me fa lo stesso fra quali

persone rizzare il pelo come un leone

prigioniero, da quale ambiente

essere espulsa – immancabilmente –

 

dentro di me, nel privato dei sentimenti.

Orso della Kamciatka senza banchisa,

dove non acclimatarmi (né mi sforzo!);

dove umiliarmi – per me fa lo stesso.

 

Non mi farò illudere nemmeno dalla lingua

natia, dal suo latteo appello.

Per me è indifferente in quale lingua

non essere capita dal primo incontrato!

 

(da un lettore di tonnellate di giornali

divoratore, mungitore di dicerie…)

del ventesimo secolo – è lui,

ma io arrivo ad ogni secolo!

 

In catalessi, come una trave

superstite di un viale,

per me tutti sono uguali, e tutto – eguale,

e, può darsi, di tutto più indifferente

quel che era nativo – più di tutto.

Da me tutti i segni, tutti i marchi,

tutte le date – sono scomparsi:

anima nata – in un qualsiasi dove.

 

Così il mio paese non mi ha avuta cara,

che anche il più perspicace sbirro,

lungo tutta l’anima – tutta per traverso! –

non rintraccerà neo di nascita!

 

Ogni casa mi è straniera, ogni tempio vuoto,

e fa lo stesso e tutto è uguale.

Ma se lungo una strada un arbusto

appare, specialmente un sorbo…

 

(trad. di P.A. Zveteremich)

I lettori di giornali

 

Striscia il serpe sotterraneo,

striscia, trasporta gente.

E ciascuno con il suo

giornale (con il suo

eczema!) tic da ruminante,

cancro osseo dei giornali.

Masticatori di mastici,

lettori di giornali.

 

Chi, il lettore? Un vecchio? Un atleta?

Un soldato? Né lineamenti, né visi,

né età. Scheletro – poiché non ha

viso: un foglio di giornale!

Di cui tutta Parigi

dalla fronte all’ombelico è vestita.

Lascia stare, ragazza!

                        Metterai al mondo

un lettore di giornali.

 

Dondolando – “vive con la sorella”

ruttano – “ha ucciso il padre!”

Si dondolano, il nulla

si pompano dentro.

 

Che sono per questi signori

il tramonto oppure l’alba?

Divoratori di vuoto,

lettori di giornali!

 

Di giornali, leggi: di calunnie;

di giornali, leggi: di sprechi.

Ogni colonna, una diffamazione

ogni capoverso: disgusto…

 

Oh, con che cosa vi presenterete

al Giudizio Universale, all’altro mondo?!

Arraffatori di minuti,

lettori di giornali!

 

“E’ partito, sperduto, sparito!”

E’ antica la paura delle madri.

Madre! Dei Gutemberg la presse

è più terribile della polvere di Schwarz!

 

Davvero meglio al cimitero

che nel marcio lazzaretto

dei grattatori di scabbie,

lettori di giornali!

 

Chi i nostri figli

fa marcire nel fiore degli anni?

I miscelatori di sangue,

sgi scrittori di giornali!

 

Ecco, amici – e anche

più forte che in queste righe! -

che cosa io penso quando

con il manoscritto in mano

 

sto davanti alla faccia

(posto – più vuoto non c’è)

sicchè dunque alla non faccia

di un redattore di giorna-

listica immondizia.

 

(trad. di P. A. Zveteremic)


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