Brodskij Iosif Aleksandrovic, 1940 - 1996

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche

Sono nato e cresciuto nelle paludi baltiche, dove
onde grigie di zinco vengono a due a due;
di qui tutte le rime, di qui la voce pallida
che fra queste si arriccia, come il capello umido;
se mai s’arriccia. Anche puntando il gomito, la conchiglia
dell’orecchio non distingue in esse nessun ruglio,
ma battiti di tele, di persiane, di mani,
bollitori su fornelli, al massimo strida di gabbiani.
In questi piatti paesi quello che difende
dal falso il cuore è che in nessun luogo ci si può celare e si vede
più lontano. Soltanto per il suono lo spazio è ostacolo:
l’occhio non si lamenta per l’assenza di eco.

                                                ( trad. di G. Buttafava)

…e alla parola grjaduscee, “futuro”, in frotta

…e alla parola grjaduscee, “futuro”, in frotta
sbucano sorci dalla lingua russa
a rosicchiare il pezzetto più ghiotto
della memoria, formaggio coi buchi.
E’ indifferente dopo tanti inverni, chi o
che cosa è dietro le tende della finestra, in piedi,
e nel cervello non risuona il celeste “do”,
solo il loro fruscio. La vita, a cui non chiedi
come al famoso cavallo, di farsi guardare
in bocca, mostra i denti ad ogni incontro.
Di ciascun uomo non resta che una parte
del discorso. In genere una parte. Parte del discorso.

Io ero solamente ciò

Io ero solamente ciò
che tu toccavi, quello
su cui – notte fonda, corvina –
la fronte reclinavi tu.

Io ero solamente ciò
che tu là in basso distinguevi:
sembiante vago, prima, e poi
molto più tardi, tratti.

Sei tu ardente, che
sussurrando hai creato
la conchiglia dell’udito
a destra, a manca, là, qui.

Tu che nell’umida cavità,
tirando quella tenda,
hai messo voce, perché
potesse te chiamare.

Cieco ero, nulla più.
Tu, sorgendo, celandoti,
hai dato a me la facoltà
di vedere. Si lasciano scie

così, e si creano così
mondi. Spesso, creati,
si lasciano ruotare così,
elargendo regali.

E, gettata così,
in caldo, in freddo, in ombra, in luce,
persa nell’universo,
ruota la sfera e va.

(trad. di G. Buttafava

In Italia

Vivevo anch’io in una città con le statue che spuntano
sopra le case e il filosofo locale che al grido “stupra, stupra!”
correva per le strade, scotendo la barbetta,
e un lungofiume infinito faceva breve la vita.

Ora, accecando cariatidi, declina il sole laggiù.
Ma coloro che mi hanno amato più
di se stessi non sono ormai fra i vivi. I cani, perduto
il contatto con l’oggetto della caccia, ne fiutano i rifiuti.,

in questo simili alla memoria, alla vita delle cose. Tramonto:
in lontananza voci, grida del tipo:”porco!
Vattene via!” in un’altra parlata. Ma nulla è più comprensibile.
Con la sua colombaia d’oro risplende irresistibile

la laguna più bella, velando la pupilla. Quando arriva
al punto in cui di più non può essere amato, l’uomo
disdegnando di risalire a nuoto
la corrente violenta, si nasconde in prospettiva.
(trad. di G. Buttafava)

Dal vero

Il sole cala, ha chiuso il bar dell’angolo.

Si accendono i lampioni, quasi un’attrice che per farsi bella
E mettere spavento si bordi gli occhi di violetto.

E con il paracadute l’emicrania cala
Sulle retrovie del nemico in pastrano di ponte.

E i colombi sul frontone di palazzo Minelli
Fanno l’amore negli ultimi raggi del tramonto,
senza badare, come un tempo
i nostri cupi antenati in condizioni
antidiluviane, ai propri simili.

I rintocchi del campanile
Che ha messo radici nel cielo veneziano:

frutti che cadono senza toccare
il suolo. Se esiste un’altra vita,
lì qualcuno si occupa della raccolta
di queste cose. Tra poco tempo, credo,

ne saprò di più. Qui, dove tanto seme
è stato versato, e lacrime estasiate

e vino, in un vicolo del paradiso
terrestre io sto di sera, e aspiro

con la gomma raggrinzita dei polmoni
l’aria pulita, l’aria autunno-invernale,

rosa per i tetti di mattoni – l’aria locale
di cui non puoi saziarti, soprattutto

se fai le cose all’ultimo momento
della vita. L’aria che odora di gabbie liberate

dal tempo. Gualcita come una banconota,
con il suo azzurro taglio l’onda

lecca i gradini del palazzo
ricevendo come resto un mattone

bruno soggetto a dermatite,
e la cariatide precaria

che ha issato sulle proprie spalle l’organo
della parola,sigaretta compresa –

la cariatide immersa nella contemplazione
della camera-voliera affrancata

dalle convenienze, rovesciata come un guanto,
simile ora al calco di una palma, ora

a una cifra romana uscita di senno,
ora a una riga manoscritta con la rima.

(trad. di G. Buttafava)


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